Siamo lieti di riprodurre l’articolo di Mauro Bontempi, apparso oggi su “Petrus. Il quotidiano on-line sul Pontificato di Benedetto XVI”.
John Henry Newman: Dottore della Chiesa, pellegrino della Fede
e precursore di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI
di Mauro Bontempi
CITTA’ DEL VATICANO – “Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello di non insegnare solo con il pensiero e i discorsi, ma anche con la sua vita”. E’ il pensiero conclusivo del Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, al termine di un partecipe omaggio alla memoria di John Henry Newman. Quest’uomo, che presto (et pour cause) Benedetto XVI dichiarerà beato, incarna il modello del “pellegrino della fede”: la sua è la storia di una “conversione in fieri”. “Newman – concludeva Ratzinger nel 1990 – appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero”.
Perché tanta attenzione per un dotto viaggiatore anglicano convertitosi al Cattolicesimo, Cardinale di Santa Romana Chiesa negli ultimi anni di una vita durata quasi un secolo? Perché tanta passione di Ratzinger, prima come Prefetto ed ora come Successore di Pietro, per la causa di Newman, definito, arditamente, “dottore della Chiesa” ancor prima che si mettesse in moto, quasi dieci anni dopo, la complessa macchina per la gloria degli altari? Perché Newman è una figura affascinante, coinvolgente, profetica, acuta, umana, cercatrice e “ricercatrice” di Dio e del significato ultimo dell’esistenza umana. Ad Oxford, brillante studente, compie rapidamente l’intero cursus honorum accademico. Pastore anglicano nel 1824, guida spirituale del Movimento di Oxford, teso a purificare l’Anglicanesimo da derive dogmatico-dottrinarie protestanti e promuovere il dialogo e la riconciliazione con Roma, coraggioso viaggiatore per le vie della terra e della spiritualità nel 1845, dopo un cammino interiore progressivo, franco e aperto alla Verità, giunse a Roma per l’ordinazione sacerdotale cattolica. È il 1845.
Nel ’79 Leone XIII gli concede la berretta cardinalizia: caso raro, sia perché elevato al cardinalato da semplice sacerdote, sia perché non residente a Roma (rimarrà nella sua Inghilterra sino alla morte, nel 1890). La descrizione del cammino spirituale di Henry Newman è racchiusa nei “Sermoni”, composti nella fase di maturazione dall’Anglicanesimo al Cattolicesimo (1826-1843). Il Signore è luce del mondo. Il Cristianesimo è sempre stata una “religione dotta” nel senso che non ha paura del progresso e della scienza e non teme il dialogo con la filosofia, ma ama tutte le espressioni della grandezza umana. Non sempre, ammette Newman, i cattolici hanno operato in tal senso. I principi base di ogni indagine umana sono sempre gli stessi, validi e indispensabili per la speculazione filosofico-scientica quanto per quella teologica: serietà, sincerità, prudenza, modestia, pazienza. Newman, però, non cade nella trappola dell’indifferentismo.
Netta è la distinzione tra la Rivelazione e la “religione naturale” di Hume: “La Rivelazione insegna le verità religiose in modo storico, non con la ricerca; rivela la natura divina, nei risultati della sua azione, ma con l’azione stessa; non nelle sue leggi morali, ma nei comandamenti proferiti dalla sua voce, impone obbedienza non tanto per ragione quanto per fede”. Il Cristiano, quindi, rispetto all’uomo virtuoso, ha uno spirito “più profondamente radicato nell’animo; più coerente, più vigoroso, di purezza più profonda, di autorità più sovrana, con una maggior promessa di vittoria”. Il Cristiano è “totalmente e radicalmente” uomo, potremmo sintetizzare. Non è il “Superuomo” di Nietzsche, ma è colui che unisce “tutte le facoltà per formare una creatura all’altezza della pienezza di Cristo”. Ma Newman non esclude il “pagano” da questo cammino di perfezione. Anche su questa precisazione Newman conquista: egli esalta la fede senza svilire l’umanità e il diritto di ogni uomo a “cercare il volto di Dio”, come recita il Salmista. Una sana ricerca è sempre ben accetta agli occhi di Dio, qualunque sia il punto di partenza.
Giovanni Paolo II, nella “Fides et Ratio”, considera Newman nel novero di coloro che hanno intrapreso un “cammino di ricerca filosofica, che hanno tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede”. Il contributo di Newman è originale e molto vicino alla sensibilità contemporanea, figlia di due Concilii ecumenici e del magistero dei Papi del XX secolo. “Inutile discutere, inutile provare: quel che dobbiamo fare è soltanto definire”: ecco la soluzione, disarmante e provocante al tempo stesso, che il Cardinale londinese avanza per districare i nodi del rapporto “fede-ragione”. Cosa significa definire? “De-finire”, cioè “por fine”, ma anche comprendere una materia dai confini incerti. L’azione del comprendere non può avvenire senza una contestuale operazione di definizione degli estremi e del contenuto, sia pur general generico, della materia d’indagine. Può anche bastare, in alcuni casi, la definizione per negazione, il “ciò che non è” per trovare la strada del “ciò che è”, di “Colui che è”, per il popolo di Dio.
Come argutamente sostiene Newman, se è vero che con la fede non si dimostrano le “verità matematiche”, allo stesso modo è necessario indagare su quali siano i limiti all’uso della ragione. Ciò che condanna il nostro, in definitiva, sono le “indebite ingerenze (della ragione) nel campo della morale e della religione”. E prosegue: “L’esercizio della ragione è esterno, o perlomeno soltanto ausiliario verso la verità religiosa, accidentale, non essenziale, utile se usato a proposito, ma non necessario”. Compiuto il primo passo, cioè quello della indicazione dei punti di confine e dei margini di contatto tra fede e ragione, Newman riflette sul contenuto della fede. Nei “Sermoni” è evidente la chiara adesione al Magistero della Chiesa di Roma. Ma c’è anche molto spazio per il forte contributo originale (ad onor del vero, non sempre condiviso dalla Curia romana). “La fede è un principio d’azione (…). La fede è sotto l’influsso delle aspettative”. Concetti che estrapolati e letti ex abrupto paiono poco ortodossi, esprimono la “fede in fieri” del Cristiano: il Cristiano non può dirsi tale se non agisce coerentemente e efficacemente secondo il proprio credo, il quale non si fonda su una promessa di salvezza: “Et iterum venturus est… et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi”, come recita il Credo.
Affascinante la teologia di Newman: “Perché la morte di Cristo sia stata necessaria per la nostra Salvezza, e come l’abbiamo ottenuta, sarà sempre un mistero in questa vita. Ma, d’altra parte, la contemplazione della nostra colpa produce una infelicità crescente, e tanto opprimente (man mano che i nostri occhi si aprono sulla nostra reale condizione), da rendere necessaria, per così dire, una qualche azione decisa da parte di Dio, che controbilanci i segni della sua ira che ci circondano, che ci calmi e rassicuri, sì da farsi fondamento ed oggetto della nostra fede. E’ come se, in pratica, non bastasse una semplice promessa (…). Con la morte del suo Figlio abbiamo un atto di Dio, un suo atto irreversibile, che fa del suo perdono dei peccati, della sua riconciliazione con l’umanità (…) un evento della storia (…). Ha dato prova della sua lealtà e sincerità nei nostri confronti (se è lecito dir così), come anche noi dobbiamo mostrare la nostra nei suoi non con parole ma con atti”. Quale cuore, quale spirito può rimanere insensibile a queste parole che toccano, è innegabile, i dubbi e le angosce che il Cristiano sente spesso dentro il suo animo? Newman non soffoca il dubbio ma lo proietta all’esterno, lo analizza, lo considera per quello che è: una componente di quell’uomo, creatura prediletta da Dio, creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio. Ma il dubbio non ha la meglio, ovviamente, sebbene il “mondo” cerchi continuamente di blandire l’umanità sia attraverso la ragione (Dio non esiste) sia attraverso le passioni (Dio non vuole il tuo bene).
Newman conosce ed ama i giovani. Molti ne ha visti passare per le auguste aule di Oxford. Li conosce bene e sa che usciti dalla pubertà e dalla prima adolescenza, essi facilmente abbondavano la fede conosciuta ed amata nei primi anni della loro vita perché la “religione non spiega più il mondo (…). C’è dell’altro”. Questo “altro” è quel mondo fittizio fatto di “spettacoli e immaginazione” che oscura la mente e dipinge la fede con le tinte di un paesaggio “monotono ed incolore”. Newman anticipa ed introduce la pastorale giovanile di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Newman, però, non ama il pessimismo, quel sentimento astioso e negativo che molti Cristiani sentono nel travagliato e traviato mondo contemporaneo: “Noi non siamo migliori dei nostri Padri”. Sta ad ogni individuo il compito di non rifugiarsi in una comoda ma nefasta “turris eburnea”, camminare per le strade del mondo consapevole dei limiti propri e del mondo circostante ma anche fermamente indirizzato verso il Bene e la Verità. Un grande uomo, John Henry Newma