Festa del Beato Giovanni Giovenale Ancina

Nato a Fossano il 19 ottobre del 1545, il Beato Ancina giunse a Roma nel 1574, dopo aver compiuto eccellenti studi a Montpellier, a Padova, a Mondovì ed a Torino, nella cui Università si era laureato in medicina e filosofia, ed aveva insegnato per tre anni esercitando al tempo stesso la professione.

Le ottime doti letterarie e musicali che Padre Giovenale coltivò lungo gli anni si intrecciavano alla profonda conoscenza della teologia, studiata a Roma seguendo le lezioni di san Roberto Bellarmino e dei migliori teologi del Collegio Romano; tanto che all’esame per l’episcopato papa Clemente VIII, alla cui presenza l’Ancina sostenne la prova, affermerà di non aver mai udito un candidato di tanta preparazione. L’umile Cesare Baronio – dei cui Annales Ecclesiastici l’Ancina rivide le bozze per volontà di Padre Filippo – disse del confratello: “un nuovo san Basilio”.

Giunto a Roma nel 1774 al seguito del conte Madruzzi di Challant, ambasciatore sabaudo presso il Papa, Giovanni Giovenale, che già nella natia Fossano aveva avuto forti esperienze di fede, frequentò con interesse la predicazione di illustri religiosi, sinceramente teso a conoscere la volontà di Dio circa la sua vocazione. Nella primavera del 1576 arrivò all’Oratorio, e le parole che lì ascoltò lo toccarono come mai prima gli era accaduto.

Lo testimonia egli stesso nella lettera immediatamente inviata al fratello Giovanni Matteo, che si trovava in Piemonte, nella quale leggiamo la freschezza di quell’esperienza: “Da certi giorni in qua ho io preso nuovo stile, ed è che vado alle ore venti all’Oratorio di San Giovanni de’ Fiorentini, dove si fanno ogni giorno bellissimi ragionamenti spirituali sopra il Vangelo, e le virtù e i vizi, e intorno alla storia ecclesiastica e alle vite dei Santi. […] Al fine si fa un poco di musica per consolare e ricreare gli spiriti stracchi dai discorsi precedenti. Vi prometto che è cosa bellissima e di gran consolazione ed edificazione; e mi sa male che né voi né io sapessimo l’anno passato che si facesse un si nobile e onorato esercizio. Or sappiate che quei che ivi ragionano son persone qualificate, in sacris, di molto esempio e spiritualità. Hanno per capo un certo Padre messer Filippo, fiorentino, e vecchio ormai sessagenario, ma stupendo per molti rispetti; specialmente per la santità della vita, e mirabil prudenza e destrezza in inventare e promuovere esercizi spirituali, come fu autore di quella grande opera di carità che si faceva alla Trinità de’ Pellegrini quest’Anno Santo. […] Molti a lui corrono per consiglio, specialmente quelli che sono per entrare in religione. E ho inteso che di già ha provvisto per molti […] Parlai seco un pezzo nei giorni passati, introdotto da un suo discepolo più caro e più mortificato degli altri [è Cesare Baronio]. Insomma, mi vide e mi sentì volentieri, mi esortò sopra ogni altra cosa all’umiltà. Poi volle che io mi preparassi bene per fargli una buona confessione generale, ciò che sarà la prossima settimana. Indi mi darà il parer suo circa l’entrata in religione e la vita solitaria. Dio voglia che anche voi siate con me, come una volta, ma presto, col favore di Dio, affinchè quanto prima, spediti dalle cure dei negozi secolari, abbracciamo, come sapete, una nuova vita. Frattanto vi scriverò tutto quella che questo Santo uomo mi consiglierà nel Signore, da che egli pernotta nelle orazioni…”.

Padre Filippo che scrutava gli animi, lo fece attendere ben tre anni prima di additargli la strada della vocazione: non l’Ordine certosino, dove egli pensava di entrare, ma l’Oratorio; e per suo fratello pure. Nell’ottobre del 1580 fu accolto in Congregazione: dopo una vita – 35 anni – trascorsa negli agi della sua condizione, Giovanni Giovenale si dispose con pronta obbedienza ad un’umiltà a tutta prova, vissuta anche nell’esercizio dei più bassi servizi, felice del suo nascondimento che gli consentiva, in qualche misura, anche di rispondere alla sua propensione per la solitudine. Ma il Padre non lo lasciò a lungo in quella condizione: dopo un anno lo fece ordinare diacono e volle che iniziasse a predicare all’Oratorio. Fu di fronte a queste prime esperienze che il Baronio disse: “Oggi noi dobbiam restare molto obbligati al Signore, perché abbiam fatto l’acquisto di un nuovo Basilio”.
 
Con squisita sensibilità di animo e con profondi esempi di pietà, Giovenale predicava i sermoni quattro volte la settimana, sempre disponibile anche a sostituire coloro che ne erano impediti. Contemporaneamente incaricato dell’insegnamento della teologia ai giovani studenti dell’Oratorio, vi portò la sua preparazione, compiuta attraverso larghi studi, e ardente amore per la Verità contemplata nella preghiera. Le sue lezioni, che si conservano in gran parte manoscritte, rivelano la profondità della mente, la vastità della conoscenza, l’umiltà nell’esporre. In una delle sue introduzioni sinceramente affermava che avrebbe parlato non docendo, ma dicendo, anzi discendo, imparando lui stesso la Verità “che tanto ci sublima”.
 
Ordinato sacerdote il 9 maggio 1582 in San Giovanni in Laterano – il fratello G. Matteo in quello stesso giorno fu ordinato diacono – sentì profondamente per tutta la vita la grandezza e la responsabilità dell’Ordine ricevuto: “La considerazione della mia indegnità, obbligata ad amministrare i Sacramenti e la Parola di Dio, che sono gli uffici più nobili e più alti nella Chiesa – scriverà un giorno da Napoli a Padre Filippo – mi ha fatto innanzi tempo incanutire”.
 
L’amore che nutrì per Padre Filippo fece di lui un discepolo degno del maestro. “Questa ammirevole figura del servo di Dio – scrive il Card. A. Capecelatro nella Vita di S. Filippo – è similissima figura di S. Filippo, e in certe particolarità la ritrae così bene che nel guardar l’uno ti pare di veder l’altro… La vita del Giovenale oratoriano fu mirabile. Pochi uomini avevano in sé una natura così capace di imitare S. Filippo come lui; e pochissimi ne ebbero una volontà del pari ardente. Gli bastarono poco più di cinque anni passati nella Congregazione di Roma, per rendersi un perfetto discepolo del nostro Santo”.

Sono numerose le testimonianze dell’affetto e della tenera devozione dell’Ancina verso Padre Filippo: in una lettera da Napoli, datata 1 maggio 1587, gli scriveva: “M’invita la festa di S. Filippo glorioso Apostolo a scrivere a Vostra Reverenza, servus inutilis ad Dominum, et prodigus et nequam filius ad indulgentissimum et optimum Patrem. […] Stamattina ho applicato il Santissimo Sacrificio della Messa a Lei sola principalmente, ut Dominus conservet et beatum faciat, donec videat filios filiorum…”; in un’altra, del 24 maggio 1591, scriveva: “La gratissima lettera di Vostra Paternità mi ha fatto esclamare più volte ad alta voce: unde mihi hoc? Tanto m’ha ripieno di consolazione e stupore […] Non ho concetti né parole sufficienti per ringarziarLa degnamente di tanto onore e favore. […] Prego il Signore che mi faccia per l’avvenire degno di ricevere simil favori mentre Ella vive e io mi sto così lontano dalla graziosa e gioconda Sua presenza sempre fruttuosissima; sebbene, per la debita riverenza e singolare affezione che Le porto, me la fo spesso presente […] Pater mi, Pater mi, currus et auriga Israel, benedicite, et multiplicetur super me et super omnes filios tuos caelestis benedictio tua, et super filios filiorum tuorum”. E l’anno seguente, nella festa dei SS. Papia e Mauro “nostri protettori”, mentre confida al Padre la propria preoccupazione per le condizioni di salute del fratello Matteo – per il quale chiede indulgenza e “un poco di vacanza dall’Oratorio” – assicura Padre Filippo di aver celebrato “per Vostra Reverenza cum collecta pro Praelato et Congregatione sibi commissa”.

Una delle ultime lettere a Padre Filippo, tra quelle che ci sono state conservate, data a Napoli sul finire di gennaio 1593, esprime la gioia del figlio per la ricuperata salute del Padre, e gli manifesta il suo animo: “Ora, prima che finisca del tutto questo primo mese dell’anno già corrente, ecco che io, conforme al solito e debito mio tributo annuale, mando a Vostra Reverenza la confermazione della triplice mia proposta solenne, in buona forma e con lettere da potersi ben leggere senza occhiali: Primo episcopari NOLO. Secundo ROMAM nec volo nec nolo. Tertio super omnia OBOEDIENTIAM VOLO. Et hoc ipsum usque ad mortem”.
 
L’Oratorio fu per lui un’impronta che orientò ed alimentò la sua vita ed il suo ministero. Tra le testimonianze che si possono cogliere nei suoi scritti c’è anche una poesia, nella quale – con l’armonia di eloquio, di ritmi e di suoni che rivela nell’Ancina il poeta ed il musico oltre che l’uomo colto- egli canta lo spirito e il fine dell’Oratorio: l’intelletto umano, capace di innalzarsi, attraverso l’esercizio della mente, alla conoscenza del creato e della sua bellezza, “gran cosa è certo” (l’Umanesimo di Padre Filippo e della sua scuola!), ma questa nobile impresa da sola non basta all’uomo se il cuore è freddo o se languisce per l’assenza del “celeste ardore” (il fervore religioso e la calda devozione della scuola di Filippo, in cui “si parla al cuore”!); se l’uomo non attinge a quello spirito divino che solo può dare all’anima immortale la gioia di cui è assetata e che lo conforta anche nell’ora del dolore, e se non risponde con opere buone (l’impegno ascetico della proposta filippina!) all’amore di Dio, nulla vale, tanto meno i beni del mondo ed ogni prestigio umano. L’Oratorio, con i suoi sermoni familiari ed i suoi canti, è tutto in questa ricerca di “perfezione” dell’umano ottenuta in dono mentre si sale per i sentieri del “monte”, in cima al quale “tutto n’arde d’amor chi ‘n Dio s’adima”: pienamente arde d’amore chi si inabissa nella comunione con Dio.
 
L’Oratorio
“Ch’a l’intelletto human tutto si scopra / l’ente creato, e qui nulla si celi qui l’ingegno s’affine ove s’adopra; / ch’arte, natura e ciel tutto si sveli, // gran cosa è certo, alto maneggio et opra. / Ma vagli a dirne ‘l vero e senza veli, /che pro ne vien se ‘l cor freddo com’angue / o di celeste ardor scarso si langue? // Forma gentile e gratiosa in vista / ben può ella apparir, ma nulla vale, / se lo spirto divin non si racquista / onde sol può bearsi alma immortale, // e fuor di quel si giace amara e trista, / se trafitta la ten piaga mortale. / Nulla è haver monarchie tra mille mondi, / s’a Dio col ben oprar non corrispondi. // Qui tutto fisso è l’Oratorio e intento, / che si desti l’affetto e si riscalde: / a questo mira e tende ogni concento / e ogni suo discorso, in tener salde // sempre l’alme con Dio, vero contento. // Or siam del monte sol giunti alle falde, // ch’a mezzo il dorso e al sacro giogo in cima / tutto n’arde d’amor chi ‘n Dio s’adima”.
 
Quando, nel 1586, iniziò a Napoli l’esperienza oratoriana, P. Ancina fu destinato da Padre Filippo a quella Casa su ripetuta sollecitazione di P. Francesco M. Tarugi, e con lo stesso ardore vi svolse molteplici attività di predicazione e di studio, dedicandosi anche alla poesia ed a composizioni musicali, di cui rimane prezioso documento il “Tempio armonico della B. V. Maria”, raccolta di canti e laudi spirituali a tre, cinque, otto e dodici voci.
 
La capitale del Regno lo vide promotore, per un decennio, di incontri culturali e formativi in vari ambienti. Il suo fervore apostolico lo spinse ad entrare in tutta la realtà culturale e spirituale di Napoli, e la città gli rispose con straordinario favore. Per l’aristocrazia e l’ambiente della Corte – a cui guardò con interesse profondamente pastorale, senza dimenticare di portare in questo mondo le ansie ed i problemi dei poveri – fondò l’Oratorio dei Principi; istituì sodalizi per i dottori, gli studenti, i mercanti, gli artigiani. Organizzò recite ed accademie per le quali preparò i testi e la musica; compose numerose opere religiose in prosa e in versi, la parte maggiore delle quali è ancora inedita. Con questa dedizione instancabile nell’attività pastorale maturò i criteri di apostolato che poi avrebbe seguito negli anni successivi, soprattutto nel breve spazio del suo servizio episcopale. A Roma e a Saluzzo sovente richiamò le esperienze di Napoli. Chiamato a Roma nel 1596, quando già si profilava per lui la nomina al vescovado di Saluzzo, concordata tra Clemente VIII ed il Duca di Savoia, P. Giovenale visse l’esperienza di un terribile travaglio; soprattutto quando, nel 1598, la decisione parve irrevocabile.  In una Roma che conosceva la corsa frenetica di molti alla carriera ecclesiastica, egli si diede alla fuga, prendendo la strada per Narni, San Severino, Fermo…, giungendo fino a Loreto e proseguendo per altri luoghi. Con quel gesto profetico – che lo poneva sulla linea della più pura tradizione dell’Oratorio, al quale, nonostante gli interventi dello stesso Padre Filippo, il nuovo Papa, conoscendo il valore di questi uomini, aveva sottratto, nel 1592, P. Francesco Maria Tarugi per l’arcivescovado di Avignone e P. Giovan Francesco Bordini per quello di Cavaillon – P. Giovenale aveva cercato di rimanere l’apostolo di sempre, ma nella semplicità dello stile oratoriano.

Fu fatto tornare energicamente a Roma da quel suo cercato “deserto”, e vi fu accolto “con applauso universale”, come si legge nel “Ristretto della vita del Venerabile servo di Dio Giovanni Giovenale Ancina, vescovo di Saluzzo”: “da tutti acclamato per la generosa fuga dalle offerte dignità; il cardinale Tarugi particolarmente non cessava di encomiarlo dicendo: … Non si trovano dei Padri Giovenali che dicano: mi son dato alla fuga per starmene nel deserto”. A causa del perdurare delle trattative tra la Curia Romana e lo Stato di Savoia sui diritti che la Sede Apostolica reclamava, la nomina tardò. Ufficializzata nel Concistoro del 26 agosto 1602, P. Giovenale dovette accettare quel peso. Avrà sicuramente ripensato in quel momento ai versi, volutamente popolareschi, composti a Fermo nei giorni della fuga: il “Nuovo cantico di Giovenale Ancina peccatore, a imitazione del Beato Jacopone da Todi. 1598”, come egli li intitolò, o “Il pellegrino errante” come saranno in seguito denominati: “Pastorato gran travaglio: por la vita a repentaglio, quando gregge và a sbaraglio… Vescovado gran tempesta, notte e giorno al cor molesta: se t’aggrada tale festa, fatti avanti, pecorone!”. Ma non era certo la paura delle fatiche apostoliche a fargli temere quel servizio… C’era il ricordo di Padre Filippo e della semplicità della vita all’Oratorio; c’era la sua umiltà, la coscienza del suo nulla: “Piscopato de Salluce, lascia ad autro esperto Duce, ca no sei tu sal né luce, ma sol ombra e Cocozzone!”. L’ordinazione episcopale gli fu conferita dal card. Tarugi nella amata Vallicella il 1° settembre. 
 
Da Fossano, dove dovette fermarsi alcuni mesi a causa di ricorrenti questioni tra il Duca e la Santa Sede, e dove iniziò ad esercitare il suo ministero episcopale lasciando memoria addirittura di miracoli operati con la sua preghiera e la sua benedizione, inviò ai saluzzesi il suo primo saluto: “una breve lettera scrittavi con l’intimo affetto del cuore, per chiaro testimonio e pegno del sincero amore che vi portiamo, come padre ai figli”, nella quale presentava il suo programma: “Procureremo di visitare gli infermi, consolare gli afflitti, sollevare i bisogni dei poveri secondo le nostre forze”. Dichiarava, inoltre, la sua volontà di dialogare con tutti “in udienze facili e pronte”, di amministrare la giustizia temperando il rigore con equità e dolcezza; il suo impegno nella predicazione e nella catechesi ed il suo desiderio di veder rifiorire quella comunità cristiana nella frequenza ai sacramenti. E concludeva: “S’introdurrà anche l’Oratorio, conforme al modo e stile usato in Roma, in Napoli e in altre principali città d’Italia”.
 
Giunto a Saluzzo, indisse il Sinodo diocesano, istituì il Seminario, iniziò la Visita Pastorale applicando le disposizioni del Concilio di Trento con festosità e mitezza filippine, si dedicò al ricupero dei Valdesi e degli eretici ottenendo in questo campo conversioni cospicue: tra gli altri, il nipote di Calvino, che divenne carmelitano col nome di fra Clemente.  Predicò incessantemente, come aveva promesso e come lo ritrae la pala del Borgna sull’altare a lui dedicato nella cattedrale di Saluzzo. Colse ogni occasione per annunciare la Parola di Dio, prese spunto da ogni circostanza: come quando, trovandosi a Belvedere Langhe, improvvisò: “Che cosa pensate voi che sia Belvedere? Forse vedere una Milano tanto popolata e mercantile? Forse una Venezia fondata in mare? O forse una Napoli con tanti bei dintorni? Sapete che cos’è il Belvedere? Il vedere Dio faccia a faccia, il vedere l’umanità di Cristo Redentore con le piaghe nelle mani, nei piedi, nel costato, sofferte con tanta carità per amore nostro; il vedere la Santissima Vergine sua madre…tanti angeli e santi in Paradiso. Questo, anime mie, è il Belvedere: e a questo dobbiamo aspirare tutti, prendendo i debiti mezzi che sono la confessione e penitenza dei peccati e l’osservanza della divina legge”.

Innumerevoli furono le opere di rinnovamento spirituale e di fattiva carità da lui compiute nello spazio di poco più di un anno. Stupisce che tale mole di lavoro sia stata compiuta in un tempo tanto breve da un uomo talmente dedito alla preghiera che, talora, inginocchiato nella sua stanza, non si accorgeva che qualcuno vi passava, e che era capace di dedicare anche cinque o sei ore continuate all’adorazione estatica del SS. Sacramento. La dignità episcopale non aveva per nulla modificato il suo tenore di vita appreso alla scuola di Padre Filippo: volle per sé niente più dello stretto necessario; la sua mensa era semplicissima, ma mai mancò di invitarvi ogni giorno almeno due poveri, e quattro nei giorni festivi; scelse per sé nel Palazzo le stanze più disagevoli, e trasformò la sua Casa – nella quale abitava anche un mendicante conosciuto a Roma e portato a Saluzzo – in un modello di comunità, dedita al lavoro, alla preghiera ed alla meditazione, alla celebrazione della Messa ed anche al silenzio in certe ore della giornata. Ad una sola ricchezza mons. Ancina non potè rinunciare: la sua biblioteca, composta – come quella di Padre Filippo – di circa quattrocento volumi, tra i quali figuravano opere su tutte le scienze ecclesiastiche, libri di medicina, di storia naturale, di letteratura. 
 
La sua opera di riforma del clero, dei religiosi, del laicato cristiano, fu interrotta dalla morte repentina: un sospetto avvelenamento – a cui non doveva essere estraneo un frate di vita dissoluta, colpito dai provvedimenti del santo Vescovo – pose fine alla sua esistenza terrena il 30 agosto del 1604. La sua Chiesa lo pianse con immenso affetto e ne conservò un riconoscente ricordo. L’ultimo frammento uscito dalla penna del Beato Ancina esprime, ancora in forma poetica, il grande anelito che sostenne tutta la sua vita e la sua azione apostolica, la sete di Dio alla quale non fu mai estraneo quel desiderio di martirio che P. Giovenale aveva alimentato alla fervida scuola di P. Filippo:

“Signore, io son contento / soffrir pena e tormento / purchè sia certo / che giovi all’alma mia. // E qual grazia maggiore / o più sublim favore / venir mi puo’ dal Cielo / che di squarciarmi il velo. // Il velo che m’adombra / il corpo è che m’ingombra / sicchè a me non riluce / l’alta Divina Luce. // Venga dunque martìre, / conforme al mio desire / struggami ferro e fuoco, / questo ancor fia poco. // Ch’al ben di gloria eterna / per quel ch’io mi discerna / non è patir condegno / di pur’uomo santo e degno”.

Merita ancora ricordare, in questo rapido sguardo posato sulla insigne figura del nostro Beato confratello, la fraterna amicizia che lo legò a san Francesco di Sales, “gemma della Savoia” il quale concluse i suoi giorni, consunto dalle fatiche apostoliche, il 28 dicembre del 1622, l’anno della canonizzazione di San Filippo Neri. Francesco non aveva conosciuto personalmente Padre Filippo; era stato però a contatto a Roma, nel 1598-99, con l’ambiente di Padre Filippo; visitando frequentemente la Vallicella conobbe e strinse amicizia particolarmente con alcuni tra i primi discepoli del Santo: il cardinale Cesare Baronio, P. Giovanni Giovenale e P. Giovanni Matteo Ancina, P. Antonio Gallonio. Non è senza questi incontri e la stima maturata da Francesco per l’ambiente vallicelliano che la “Sainte Maison” da lui fondata a Thonon, nel Chiablese, sia stata eretta da Clemente VIII nel 1598 “iuxta ritum et instituta Congregationis Oratorii de Urbe” e che la Casa di cui Francesco era nominato primo Preposito abbia avuto il cardinale Baronio come protettore. 
 
L’impegno svolto dal Sales al servizio di una vastissima direzione spirituale – nella profonda convinzione che la via della santità è dono dello Spirito per tutti i fedeli, religiosi e laici, uomini e donne – fece di lui uno dei più grandi direttori spirituali di tutti i tempi. E la sua azione, che ebbe nel dialogo, nella dolcezza, nel sereno ottimismo il proprio fondamento, consuona mirabilmente con la proposta spirituale di San Filippo Neri e della scuola oratoriana, per l’innata sintonia che le opere del Sales evidenziano. 
 
Fatto vescovo di Ginevra nel 1602, contemporaneamente alla nomina dell’Ancina, la corrispondenza tra i due Pastori fu il tramite del rapporto; ma non mancò un incontro memorabile che colmò di gioia i cuore di entrambi. E’ lo stesso Francesco di Sales a ricordare questo evento nell’Elogio che, su mandato di papa Paolo V, preparò per la causa di beatificazione dell’amico: essendo venuto a Torino, in visita al Duca di Savoia – suo sovrano, poiché lo Stato Sabaudo comprendeva anche il Chiablese – volle incontrare mons. Giovenale: “Per salutarlo mi discostai dal mio cammino e mi diressi verso Carmagnola, dove il vescovo stava compiendo la visita pastorale”. Era il 3 maggio del 1603, festa della Invenzione della Santa Croce: invitato dal confratello a tenere un sermone, parlò con tanto fervore che Giovenale, congratulandosi ed alludendo al casato del Sales, gli disse: “Vere tu es Sal”; e Francesco, alludendo con arguzia ed umiltà al nome della diocesi di cui l’Ancina era vescovo, rispose: “Immo tu es Sal et Lux. Ego vere neque sal neque lux”.
 
Subito dopo la partenza da Roma, dove aveva iniziato lo stretto legame di amicizia con P. Giovenale, Francesco di Sales già gli aveva scritto da Torino il 17 maggio 1599: “Di tutti i successi segnalati sempre darò conto a Vostra Paternità Molto Reverenda, ed anche di me stesso, come di cosa assolutamente sua”; e non tralasciava occasione per manifestare ad altri la sua stima per l’Ancina, come ricorda il Priore di Bellavaux scrivendo al neo Vescovo di Saluzzo: “Il grande amore che [mons. di Sales] porta a Vostra Signoria Reverendissima si scopre in questo: che parla di Lei con un affetto ed una passione grandissima, rallegrandosi d’avere presto a vederla e abbracciarla in santa carità; dicendo arditamente a tutti che è figlio di V.S. Rev.ma e che lui stesso l’ha fatta Vescovo, avendolo proposto prima d’ogni altro a Sua Santità”. Alla Signora di Chantal, in morte di Giovenale, lo stesso Francesco di Sales scriveva: “Monsignor Vescovo di Saluzzo, uno dei miei più intimi amici, e dei più grandi servi di Dio e della Chiesa che fosse al mondo, è passato a miglior vita poco tempo fa con incredibile rincrescimento del suo popolo che non ha goduto dei suoi travagli che un anno e mezzo”. 
 
Nell’Elogio citato, il vescovo di Ginevra additò nell’amico un modello esemplare della rinnovata azione pastorale promossa dal Concilio Tridentino, e pose in evidenza, insieme alle doti oratorie dell’Ancina, la sua introspezione spirituale, il dono delle guarigioni e l’entusiastico giudizio dei contemporanei. L’Elogio si chiude con una dichiarazione preziosa: “Non memini me vidisse hominem qui dotibus, quas Apostolus apostolicis viris tantopere cupiebat, cumulatius ac splendidius ornatus esset”: non ricordo di aver visto un uomo più abbondantemente e splendidamente ornato di tutte quelle doti che l’Apostolo sommamente desidera per gli uomini apostolici. 
 
“Nella storia della santità post-tridentina – si legge in un articolo apparso su una diffusa Rivista italiana di pastorale – il beato Ancina occupa un posto di notevole rilievo. L’auspicabile pubblicazione delle sue opere renderebbe un importante servizio alla conoscenza di quell’epoca. […] L’Ancina è sicuramente un profeta ed un genio dell’evangelizzazione-comunicazione, nella quale diede ampio spazio alle arti, facilitando la convocazione delle classi umili nel convito universale della cultura, della socializzazione ludica e della pietà evangelica”.