In memoria di Antoni Gaudí

Nella ricorrenza dell’88.mo anniversario della morte del Servo di Dio Antoni Gaudí, riproponiamo un interessante articolo di Emanuele Boffi, pubblicato sul n. 12 (22 marzo 2007) della rivista “Tempi”, che presenta il grande architetto catalano che fu anche fratello dell’Oratorio Secolare di Barcelona e di cui è in corso la Causa di Beatificazione.

Barcelona – La Sagrada Familia

Il costruttore di cattedrali

È un genio, è diventato cattolico, ha ereditato da Gaudí il cantiere della chiesa più “medievale” d’Europa. Si chiama Etsuro Sotoo. E viene dal Giappone.

Diceva Michelangelo, ispezionando la materia, che «qui dentro c’è Cristo». Il giovane Etsuro Sotoo, galvanizzato da tale celestiale missione, scolpiva con veemente furia apocalittica quel tronco d’albero accantonato in un angolo dell’università. E scolpisci e scolpisci, alla fine, «del volto del Cristo nemmeno l’ombra. Però avevo una bella montagna di trucioli». Ha spiegato Sotoo alle quattrocento persone che lo hanno ascoltato a un recente incontro organizzato dal Centro culturale di Milano che quel finale ammasso truciolare era il risultato di «una domanda sbagliata». Perché lo scultore che pensa solo alla forma poi cerca di trasferire l’idea nella materia. «Invece bisogna chiedersi cos’è la materia. Cercare l’anima del ferro, del legno, della pietra. Dalla materia nascerà la forma, come risultato». La novità è un parto dell’essere, non il frutto di una buona idea, e per comprenderlo, Sotoo, che è uno dei migliori scultori dell’orbe terracqueo, ha impiegato tutta una vita. Però la domanda l’ha sempre posta, anche quando non sapeva ancora balbettarla. Qualche anno fa ha raccontato che quando era giovane la gente pensava fosse «un po’ matto. Mi si poteva incontrare in centro città intento ad accarezzare qualche pietra». Stramberie d’artista che lo hanno portato, trent’anni fa, al culmine del successo e della celebrità, a regalarsi un anno sabbatico per intraprendere un viaggio «alla ricerca dell’anima della pietra, là dove è sorta la civiltà della pietra, l’Europa».


Sotoo è capitato per un accidente a Barcellona, ai piedi della Sagrada Familia «che non capivo se stessero demolendo o costruendo». Ma soprattutto, mentre tutti i turisti facevano incendiare i flash verso l’alto delle guglie, lui ammirava ai piedi della cattedrale i grossi cubi di marmo ancora non lavorati. Vuoi mettere lo splendore del grezzo? Eccoci, pensò. Fece domanda e lo assoldarono. Oggi è lo scultore principe della Sagrada. Lui, di natali orientali, si trova nella posizione che fu del geniale catalano Antoni Gaudí, l’arquitecto de Dios. A margine della sua conferenza milanese ha confidato che «la prima volta che entrai nella Sagrada Familia intuii che era opera di un altro. Oggi, mi sembra di entrare in casa mia».


L’ampiezza della ferita rivela l’arco che ha scoccato il dardo. Lo squarcio nella carne dell’artista Etsuro Sotoo non ha mai smesso di sanguinare. Ripercorrendo al contrario il tragitto della freccia è arrivato in Spagna, a quella chiesa in cui – disse una volta Gaudí – un giorno «gli angoli spariranno e la materia svelerà le sue rotondità astrali. Il sole penetrerà in tutte le direzioni. Sarà la rappresentazione del Paradiso».

Un dandy dall’animo antico


Secondo George Weigel l’Europa contemporanea ha scelto come suo monumento i cartesiani spigoli de La Défense obliando la rigogliosa magnificenza della cattedrale di Notre Dame. La Sagrada Familia è l’eccezione architettonica che conferma la regola moderna. La volle il libraio José María Bocabella, presidente dell’Associació de Devots de Sant Josep, che acquistò un pezzo di terreno in una zona allora periferica della città. Si dice che le 170 mila pesetas con cui acquistò il terreno fossero state custodite per anni nel pavimento del suo negozio. Poiché la chiesa era stata progettata per essere un tempio espiatorio, fu posta come condizione non negoziabile che i lavori procedessero solo grazie alle offerte dei fedeli. Questo spiega perché, qualche anno fa, un gruppo di facoltosi giapponesi si offrì di finanziarne il completamento, ma la proposta fu rifiutata. La Sagrada Familia è l’unica chiesa al mondo costruita con i tempi lenti e anonimi del Medioevo. «Questo tempio sarà finito da san Giuseppe» ripeteva spesso Gaudí, che aveva in sé la coscienza medioevale che la chiesa è un’opera collettiva di un popolo, non il pregevole manufatto di un singolo. «Non vorrei terminare io i lavori, perché non sarebbe conveniente. Bisogna sempre conservare lo spirito del monumento, ma la sua vita deve dipendere dalle generazioni che se la tramandano e con le quali la Chiesa vive e si incarna», spiegava ancora. «La finirà san Giuseppe. Il mio cliente, colui che me l’ha ordinata non ha fretta. In questa chiesa tutto è frutto della Provvidenza, inclusa la mia partecipazione come architetto».

La vita stessa di Gaudí è l’emblema di tale assunto. Nato nel 1852 a Reus, figlio di un ramaio, mostrò sin da giovane tutta la propria sregolata genialità. Snobbato dai committenti pubblici che non ne apprezzavano le stravaganti fughe futuristiche (tutto ciò che gli ha commissionato il Comune di Barcellona è la costruzione di un lampione), Gaudí ebbe la fortuna di trovare mecenati che ne favorirono il genio. Anticlericale socialisteggiante, conduceva serafico la vita del dandy. Capelli biondi e folti, occhi azzurri, portamento signorile, si faceva preparare i cappelli a cilindro da Arnau, il miglior negozio di copricapi di Barcellona, e si lasciava radere la barba solo dal sofisticato coiffeur Audonard. Quando il 3 novembre 1883 gli fu affidata la Sagrada Familia aveva 31 anni. Diverrà l’opera della sua vita, come la Divina Commedia per Dante e il Faust per Goethe. Vi lavorò maniacalmente per 43 anni, di cui 12 passati esclusivamente sul posto. Morirà il 10 giugno 1926 all’incrocio tra la Gran Via e la calle Bailén, investito da un tram. La leggenda vuole che nessuno riconobbe in quel cencioso moribondo il grande architetto e che alcuni tassisti si rifiutarono di trasportare quel maleodorante accattone all’ospedale più vicino. Ma due giorni dopo il corteo funebre che accompagnò la sua salma era lungo un chilometro, dall’ospedale Santa Cruz alla Sagrada Familia. Oggi è sepolto nella cripta, nella cappella della Vergine del carmine cui era devoto. L’epigrafe recita: Antonius Gaudi Cornet, reusensis.

Ha detto Gaudí: «Nella Sagrada Familia tutto è provvidenziale. Già all’inizio una signora fece una donazione di 700 mila pesetas che permise di dare al progetto una dimensione superiore a quella prevista in origine». Già nel 1914, quando Gaudí si trovava nel mezzo dei lavori, erano stati spesi più di 3 milioni di pesetas. Anche non finita, comunque, la Sagrada Familia è il monumento spagnolo più visitato: ogni anno accoglie 2 milioni e mezzo di visitatori. Per il completamento definitivo della chiesa servono invece almeno 20 o 30 anni, se si rispettano i piani stabiliti. La cattedrale, a 130 anni dalla posa della prima pietra, è ancora un grande cantiere.

È la natura la vera opera d’arte

Se è vero che l’architetto Gaudí era trasportato dalla sua esuberanza creativa a progettare realizzando, è anche vero che la struttura di base dell’opera e i suoi rimandi interni, come una Divina Commedia di pietra, sono numerosissimi. Li spiega Sotoo: «Si pensava che un passo umano fosse di settantacinque centimetri. Dieci passi sono 7,5 metri: questo è il modulo. La distanza tra le colonne è 7,5 metri. Il doppio sono quindici metri come l’altezza minima delle colonne. La distanza fra i colonnati è 22,5 metri, cioè tre volte il modulo e il tetto è sette volte il modulo: 52,5 metri. Ci sono 90 metri dall’ingresso fino in fondo, cioè dodici volte 7,5 metri. Gaudí ha usato questa misura come linguaggio architettonico, ma non ha mai dimenticato il cuore, ha sempre usato sia la tecnica sia il cuore. Non bisogna essere dominati dagli strumenti: ciò significherebbe giungere al momento in cui l’io si frantuma». L’anima è nell’idea gaudiana che è la natura la vera opera d’arte, e Dio il suo pittore. All’artista spetta il compito di riproporla in tutto il suo rigoglìo floreale e faunistico.

Nel tormento vitale delle pietre di Gaudí si trova rappresentato tutto ciò che sta sotto il cielo. Rane, dragoni, salamandre, lucertole, serpenti stanno abbarbicati sulle pareti esterne «senza poter entrare all’interno perché esseri demoniaci». Tacchini e galline, foglie di palma e segni zodiacali ornano ogni dove muri e soffitti, guglie e doccioni. Un’inusitata illustrazione di episodi biblici si trova sulle pareti perché Gaudí non voleva solo costruire un luogo di preghiera, ma una vera e propria bibbia che, ogni giorno, «aperta al bacio del sole, grande pittore delle nostre terre, si dorerà e colorerà da sola».
«La bellezza è lo splendore della verità» ripeteva Gaudí che era maniacale nella cura dei più minimi dettagli. Nell’architrave della porta nel portico della Fede si vede il cuore di Cristo rappresentato con crudo realismo, mentre le spine lo trafiggono e i fiori e le api lambiscono il sangue divino. «Siccome l’arte è bellezza, senza verità non c’è arte. Per conoscere la verità, si devono conoscere bene gli esseri del mondo creato», sentenziava. è per questo che sceglieva come modelli per le sue sculture le persone che lavoravano alla costruzione del tempio. Andava persino a recuperare i cadaveri dell’hospital de la Santa Creu, traendo calchi e maschere per i propri personaggi.

Oggi ardite guglie simili a stalagmiti attratte dal cielo, come per una sorta di forma di gravità al contrario, sono collegate da ponti che, nella testa del maestro, erano simboli papali: la chiesa è sempre in costruzione e i direttori dei lavori sono i Pontefici (da ponti-fex, colui che cura la costruzione del ponte). Nelle parole di Gaudí: «La Chiesa edifica continuamente dei tempi che rappresentano il ponte per raggiungere la Gloria».

Il pellicano invisibile

C’è chi ritiene, davanti a tale complessità di particolari e a tale mastodontica visione complessiva, impossibile poter proseguire nell’opera di Gaudí. L’arquitecto de Dios non ha lasciato nulla di scritto, affidando le sue idee solo alla memoria dei suoi discepoli e a pochi disegni, la gran parte perduti. A chi gli domanda come sia possibile proseguire, Sotoo spiega che «di fronte alla pietra bisogna essere umili. La pietra è una grande maestra. Di fronte a Gaudí è la stessa cosa. Ogni giorno, guardando la pietra, chiedo a Gaudí cosa fare». Per meglio farsi intendere Sotoo illustra una scultura che sta appena sotto l’Albero della vita: un pellicano, l’animale che secondo un’antica tradizione, sacrificandosi per sfamare i propri piccoli, aveva grattato fino alla morte la propria pancia piena di pesci. «È variamente interpretato – spiega Sotoo – ma si concorda sul fatto che sia il simbolo dell’amore materno, esempio di Cristo nell’eucarestia o Cristo resuscitato». Accadde che il pellicano si ruppe, rischiava di cadere e, chiosa Sotoo, «è un tipo di amore materno molto pericoloso se ti cade sulla testa». Gli chiesero di restaurarlo e lo fece in modo così mirabile che gli architetti proposero di spostarlo in altra parte della chiesa in modo che fosse più visibile. «Mi chiedevo: perché Gaudí l’ha invece pensato per essere così lontano dall’osservatore? Ero un giapponese in Spagna, lontano da casa, distante dagli affetti. L’amore per antonomasia è l’affetto per la madre, un tipo di amore che affiora nella nostra coscienza soprattutto quando è assente. Siamo così stupidi noi uomini, ci accorgiamo del bene quando non c’è, di rado quando è presente. Gaudí voleva comunicarci esattamente questo: farci sentire lo struggimento per questo amore distante. Voleva ammonirci, per contrasto, richiamandoci ad amare quel che ci è vicino».

Sotoo fece ricollocare il pellicano là dov’era. Oggi, per un suggestivo incrocio di destini, a proseguire la costruzione della cattedrale cattolica è uno scultore giappone. Ed è significativo che, sempre oggi, mentre tanti architetti europei brancolano dubbiosi non sapendo più dove porre le proprie pietre angolari, sia diventato Sotoo il loro punto di riferimento. Lui sa cosa fare. Sa dire dove e come le pietre vadano collocate. Il segreto è semplice: «Se l’architetto è Dio, e non Gaudí, per sapere come proseguire occorre guardare nella stessa direzione in cui guardava Gaudí. Non devi guardare Gaudí, devi guardare dove indica». Dice lo scultore che questo gli ha permesso di essere libero: «Tutti i contemporanei sono stanchi, anche quando non fanno niente. Perché? Perché sentiamo il nostro agire come frutto di un’imposizione, di un ordine. Per liberarsi da questa costrizione occorre un maestro che indichi l’approdo del viaggio, ma ci lasci liberi di giungervi secondo la nostra creatività».

Un’arpa senza corde

La fantasia creativa di Sotoo assume le forme più strane. A volte, addirittura, si manifesta attraverso una mancanza. Tra le prime sculture che gli furono affidate c’era quella di un angelo che suonava l’arpa. Quando Sotoo terminò, mostrò l’esecuzione ai discepoli di Gaudí che gli fecero notare la mancanza delle corde dello strumento. «Non le ho messe di proposito, risposi. Le sculture non sono completate dallo scultore, ma da chi le osserva. L’arte è un continuo rinnovarsi, un continuo dialogo tra chi opera e chi osserva, senza mai recare noia. Io volevo che le corde dell’arpa fossero messe da chi vedeva la scultura. Volevo che lo spettatore immaginasse ciò che non c’era».

Intanto prosegue un altro tipo di “costruzione”: il cardinale Ricardo María Carles Gordó, arcivescovo emerito di Barcellona, il 12 aprile del 2000 ha aperto solennemente il processo di beatificazione di Gaudí. Sotoo, con altri teologi, architetti, storici, biografi, artisti, è fra i testimoni. Dopo essere passato attraverso il buddismo, lo scintoismo, la new age, nel 1991 ha chiesto il battesimo. «Gaudí è stato una scintilla, non è stato tutto» ha raccontato. «Da tempo cercavo, quando ho trovato Gaudí e la Sagrada Familia ho aderito». Secondo molti studiosi, quando la Sagrada Familia sarà terminata supererà in grandiosità ed esuberanza tutte le chiese realizzate da duemila anni di cristianità. Quando sarà pronta risuoneranno nelle sue navate le note di cinque organi e le voci di oltre duemila cantori.

Emanuele Boffi