In S. Maria in Vallicella S. E. il P. Procuratore Generale ha celebrato la prima S. Messa dopo l’Ordinazione Episcopale. Ai numerosi presenti ha rivolto l’omelia che riportiamo.
Carissimi Fratelli e Sorelle,
Sia lodato Gesù Cristo!
1. Dopo la solennissima celebrazione di ieri sera, in cui sono risuonate le parole del Mandato Apostolico del nostro Vescovo, il Santo Padre Benedetto XVI, e quelle bellissime della Liturgia di Ordinazione Episcopale che ha preso la mia indegnità e ne ha fatto un Successore degli Apostoli, torniamo in Chiesa Nuova, innalzata da Padre Filippo a gloria di Dio e in onore di Maria, Vergine e Madre, su questo suolo di Roma bagnato dal sangue di Pietro e di Paolo e di tanti Martiri, impreziosito dalla testimonianza dei tanti Santi che vi sono vissuti.
E vi ritorniamo nella semplicità solenne della Liturgia domenicale, nella quale, noi fedeli di questa chiesa, vi accogliamo con gioia, carissimi amici di Ivrea, di Biella e di tanti altri luoghi…
Roma ha il genio dell’accoglienza, perché Roma è universale, communis patria, e il suo Vescovo è il Sommo Pontefice di tutta la Chiesa.
Roma non è “internazionale”: l’internazionalismo è un concetto recente nella storia: nasceva nell’Ottocento, quando Roma esisteva da venticinque secoli e la Chiesa di Cristo da diciotto.
Roma non è “internazionale”: è universale, cioè abbraccia tutto e tutti accoglie in una unità che già era cantata dal poeta pagano Rutilio Namanziano: “fecisti patriam diversis gentibus unam”: di popoli diversi, o Roma, hai fatto una patria unica!
E allora, benvenuti a casa vostra, cari Fratelli e Sorelle di Ivrea, di Biella, di Forlì, di Gioia del Colle, e di altri luoghi!
Ognuno di noi è Romano per l’appartenenza alla S. Chiesa Cattolica. Romani si diventa, più che per il fatto di nascervi o di viverci a lungo, per il fatto di amare questa stupenda Città, sede dell’apostolo Pietro oggi vivente nella Persona di Papa Benedetto, Vescovo di Roma e Vicario di Gesù Cristo! Questa stupenda Città così cattolica, universale!
Quanto mi ha sempre commosso, in tante parti del mondo, lontanissime di qui, dove sono presenti le Congregazioni dell’Oratorio, leggere scritto su molte chiese: “Roman Catholic Church”… Migliaia e migliaia di chilometri di distanza da Roma, eppure “Roman”: chiesa cattolica romana, due termini che son poi, in questo caso, sinonimi, come si dice “il Romano Pontefice” per indicare il Pastore universale della Chiesa, poiché la bellezza della Chiesa a cui abbiamo la grazia di appartenere, è anche costituita dalla sua universalità: è presente in tanti luoghi come diocesi, come Chiese locali, ma è sempre la stessa, la medesima Chiesa, Corpo del Signore diffuso sulla terra, fino ai confini del mondo!
Diventato Vescovo di Ivrea, per grazia di Dio e della Sede Apostolica, io esprimo in questo momento la consapevolezza che la Chiesa locale a me affidata, pur con le sue legittime particolarità, è la Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica che vive nel Canavese e nelle terre Eporediesi.
E professo, a nome di tutti voi, il nostro amore per la Chiesa, la nostra gioia di appartenervi, la gioia e la pace che derivano dal sapere che Gesù Cristo non ci ha lasciato un prontuario di idee, ma la Sua Parola viva che risuona con certezza nella voce viva di Pietro vivo!
Chiamato, per grazia, ad entrare nella Successione Apostolica, divenuto membro del Collegio dei Vescovi che esercita il Mandato del Signore “cum Petro et sub Petro” – nella comunione con Pietro che comporta anche l’obbedienza a Pietro – in questo momento io dico ciò che mercoledì avrò la gioia di dire al Santo Padre, baciandoGli la mano, con le parole di un grande Vescovo italiano: “Padre Santo, Vi servo per fede. E per fede significa per ragioni profonde, sicure, durature”.
2. E allora, in questa comunione cattolica, in questa amicizia profonda che tutti quanti ci fa “uno” in Gesù Cristo Salvatore, entriamo nel fatto che la Liturgia ci fa oggi rivivere attraverso il Vangelo proclamato.
Tra i numerosi elementi che arricchiscono la pagina evangelica (Mc. 7, 31-37) c’è anzitutto il luogo in cui il avvenne il miracolo: Gesù era di ritorno «dalla regione di Tiro e passò per Sidone dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli»: le “dieci città” erano centri di cultura greca e romana e gli evangelisti le presentano, in particolare, come luogo del confronto di Gesù con i pagani.
C’è poi il sordomuto: se fosse un pagano o un ebreo, il testo non specifica; solo dice: «Gli condussero un sordomuto pregandolo di imporgli la mano». Pur essendo una persona reale, con la sua identità e la sua storia personale, quest’uomo assurge anche a simbolo di uan umanità sordomuta, chiusa alla voce di dio e incapace di comunicare.
E c’è ancora la modalità con cui il Signore opera la guarigione, che dà al miracolo un significato particolare: «Portandolo in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «“Effatà”, cioè “Apriti!”».
Nella Liturgia domenicale questa pagina evangelica è introdotta da un passo di Isaia (35,4-7) che con esultanti immagini profetizza le meraviglie che Dio avrebbe operato per il suo popolo deportato schiavo in Babilonia nel 588 a. C. e là tenuto nell’oppressione: «Egli viene a salvarvi […] Si apriranno gli occhi dei ciechi, si schiuderanno gli orecchi dei sordi, griderà di gioia la lingua dei muti […] Scorreranno torrenti nella steppa». Anche questa liberazione – che si realizzerà con il ritorno del “resto di Israele” a Gerusalemme nel 538 e la ricostruzione del Tempio nel 516 – è profezia della vera liberazione che sarà portata dall’avvento del Regno messianico. E il miracolo del sordomuto guarito è segno anch’esso che tale Regno è ormai presente.
Ascoltando questi gioiosi annunci, noi, nuovo Israele, ci guardiamo attorno e notiamo presenti le sempiterne schiavitù che possono assumere forme diverse – ma neppure troppo – rispetto ad altri tempi; vediamo le medesime miserie umane, lo stesso bisogno di una novità che smuova le situazioni; e siamo tentati di chiederci: si tratta forse soltanto di belle immagini, di utopie?
La risposta della fede – che sempre propone i guardare l’ideale guardandosi da ogni forma di ideologia – è che tutto è iniziato, ma che la piena realizzazione della promessa di Dio avverrà solo nei «cieli nuovi e nella terra nuova», alla fine della storia, al compimento della redenzione: nessun paradiso terrestre si avrà, dopo quello da cui uscirono Adamo ed Eva, e tanto meno si potrà costruire quaggiù, dove è in gioco la libertà dell’uomo che si arrocca spesso in se stesso anziché aderire alla volontà di Dio, e dove la superbia, l’orgoglio, la fragilità della creatura hanno tutto il loro spazio. Neppure il bene che facciamo è caratterizzato sulla terra da definitività: si può corrompere, e le stesse opere buone possono essere sopraffatte da quelle cattive.
Il tempo del pellegrinaggio terreno è sempre tempo di faticosa realizzazione del bene: «tutta la creazione geme aspettando la propria redenzione» dice san Paolo nel bellissimo affresco che traccia nella Lettera ai Romani (Rom. 8,19-39). Ma questi gemiti dolorosi sono «il travaglio del parto di un uomo nuovo che nasce alla vita», come afferma il testo di un canto, che riprende i concetti paolini: «Se vedo l’uomo ancora soffrire, se il mondo intero nell’odio si spezza, io so che è solo il travaglio del parto di un uomo nuovo che nasce alla vita».
Noi sappiamo che è in atto in alcuni uomini, in molti uomini e donne – e attraverso questi nel mondo – il movimento impresso dall’azione di Cristo che tocca la nostra umanità e mediante il gesto concreto dei Sacramenti ci immette in un cammino di liberazione. La sua carne tocca la nostra carne malata, di cui sordità e mutezza, incapacità di ascolto e di parola, di relazione e di comunione, sono espressione. Ci libera perché ci dona la forza di combattere contro quella che, nel linguaggio tradizionale, è chiamata la concupiscenza, con i suoi frutti terribili: lussuria, avarizia e potere: il possesso – anziché la comunione – il possesso di me stesso, delle cose, e degli altri; tre idoli sempre in agguato, dal momento che nessuno ne è esente, se non ci si sottrae alla loro morsa con una lotta decisa per conformarsi a Cristo, nel cammino umile e continuo di conversione.
Il gesto di Cristo sul sordomuto risponde al bisogno più profondo dell’uomo, alla sua necessità che gli orecchi, chiusi alla Parola del supremo Interlocutore, ascoltino da Dio il senso vero del vivere, e che l’incapacità di parlare si sciolga nella accoglienza del significato delle cose che dà all’uomo la capacità di dire parole vive.
Il cuore si allarga quando, «in pieno territorio della Decapoli», nelle parole di qualcuno si coglie, magari come gemito, una invocazione: “Signore, vieni e ancora una volta pronuncia su di me il tuo “Effatà”. Strappami dalla sudditanza ai tre idoli che dominano la storia. Tu solo sei il Dio vero, il Dio della liberazione e quindi della libertà! Tu solo il vero “amator hominum”: Colui che ama gli uomini!”.
Sia lodato Gesù Cristo!