Riportiamo un articolo del Dr. Simone Raponi CO, Prefetto dell’Archivio dell’Oratorio di Roma, pubblicato su L’Osservatore Romano.
«Beati voi giovani che avete tempo di fare il bene». Con lo sguardo acuto di chi è consapevole della fuggevolezza del tempo e del fallimento di un’esistenza priva di amore, san Filippo Neri (1515-1595) si rivolgeva ai suoi giovani figli spirituali, sprigionando il senso autentico e fecondo della stagione della loro vita.
Ai numerosi giovani uomini che si riunivano nel cenacolo dell’Oratorio, infatti, Filippo additava instancabilmente la centralità del Verbum admirabile, del Signore Gesù quale unum necessarium. «Chi cerca altro che Cristo — ripeteva — non sa quel che si vogli; chi cerca altro che Cristo, non sa quel che dimandi». È proprio in Gesù che quel «fare il bene», cui i giovani sono chiamati, conosce la propria scaturigine cristallina.
Totalmente immersi nella relazione vitale con il Figlio di Dio, i discepoli del santo fiorentino avrebbero raggiunto la piena fioritura delle proprie possibilità, nonché il corretto dispiegamento di tutti quei multiformi tratti giovanili, costruttivi e distruttivi al contempo. Filippo sapeva infatti ricondurre al servizio di Dio e dell’umano l’ardore smodato per un ideale, il bisogno pressante di affermazione, lo slancio irrequieto per l’altro, la smania indisciplinata di essere amati.
Rifuggendo le oscure deviazioni della Roma lasciva e turbolenta del Cinquecento, il nutrito gruppo di giovani bottegai, artigiani, studenti e cortigiani della cerchia oratoriana trovò la strada ampia e luminosa da percorrere nell’esercizio quotidiano della Scrittura, nelle eroiche narrazioni di martirio, nel ristoro di lunghe scampagnate in luoghi ameni, nella distensione spirituale offerta dalla musica sacra, nella visita ai malati negli ospedali.
La prossimità di Filippo ai suoi giovani muoveva non tanto da esigenze assistenziali, quanto piuttosto dal riconoscimento attento di ogni singola vocazione umana e cristiana, o — in altri termini — dal tentativo sanante di rinvenire quella perduta imago Dei, contraffatta dal peccato. Privo di qualunque stereotipo di santità, Filippo sapeva ascoltare il pulsare di quelle giovani esistenze, cogliendone i frammenti del divino già presenti, alleggerendone i tumuli delle storie irrisolte, medicandone gli stigmi sanguinanti. Al torpore esistenziale, Filippo reagiva con gioiosa vitalità, alle distrazioni effimere e irresponsabili con incorruttibile fedeltà, all’ascetismo rigido e disgregante con serena e piacevole persuasione.
Con gli occhi resi limpidi dal tocco soprannaturale dello Spirito Santo, Filippo operava nelle anime dei giovani quell’ablatio necessaria per lasciar emergere la nobilis forma. Ciò avveniva non solo a parole, ma soprattutto attraverso l’esempio, mediante il coinvolgimento integrale ed esemplare della propria vita, oltreché per mezzo di una sapienza vissuta, nella quale l’antico ideale filosofico della coltivazione dell’anima si saldava all’accoglienza trasfigurante del Verbo incarnato. Non fu, quindi, l’intellettuale esercizio teorico, ma l’educazione dell’uomo a uno specifico modus essendi — improntato all’equilibrio tra logos e pathos, tra azione e contemplazione, tra natura e grazia — che meritò a Filippo, già tra i contemporanei, l’appellativo di «Socrate cristiano».
L’arte maieutica del santo fiorentino aveva lo sfondo permeabile della ferialità del quotidiano, nonché di un’area sacrale dilatata ed estesa. Giorno dopo giorno e in ogni situazione, infatti, la vita stessa di Dio poteva essere accolta, accordando la propria interiorità sulle note di quell’amore che irradia senza dispersione, che unisce senza uniformare, che libera senza disimpegno. Quella proposta da Filippo era una vita spirituale che ruotava intorno alla “mortificazione della razionale”, vale a dire alla libertà dall’attaccamento orgoglioso ai propri convincimenti. Questa altro non è che la massima forma di pacificazione rispetto a se stessi e al giudizio degli altri. Colpo mortale inferto ai prepotenti infingimenti che sopravvestono e asfissiano la vita.
Pertanto, le maschere iperboliche e risibili indossate da Filippo — il mostrarsi con la barba tagliata a metà o con stravaganti cappelli, il saltellare in presenza di uomini di rango, il vestirsi con abiti vecchi in occasioni ufficiali — non servirono solamente a occultare la propria elevazione spirituale, ma vennero impiegate quali mezzi pedagogici al fine di aprire l’animo a quell’autentica umiltà, che scompagina le false certezze del pensare comune. E che impedisce gli spregiudicati amoreggiamenti con i desideri mondani.
Ecco allora che Filippo comanderà ai suoi discepoli di ballare davanti ai porporati, di camminare suonando un campanello, di indossare una pelliccia di volpe in piena estate. «Venendo un cardinale da lui — narrano le testimonianze — fece gittar molti giovani in terra come morti per la scala».
Sono solo alcuni degli artifici mortificanti con i quali Filippo, il Socrate cristiano, seppe educare i giovani a posare gli occhi unicamente sul volto di Dio, imprimendo al loro cuore un respiro nuovo, capace di sciogliere le inquietudini che paralizzano e di abolire i rassicuranti confini che minacciano l’esistenza. È la via della libertà interiore, della libertà dei figli di Dio: il percorso più affascinante e provocatorio per i giovani di ogni tempo.
di Simone Raponi