Trasmettiamo l’omelia di S.E.R. il Cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, pronunciata nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore nel giorno del 500.mo anniversario della nascita di San Filippo Neri.
Memoria della nascita di San Filippo Neri
Cattedrale di S. Maria del Fiore
Firenze, 21 luglio 2015
(Sap 7,7-14; Sal 102; Fil 4,4-9; Gv 15,1-8)
OMELIA
L’invocazione della sapienza, come il dono più prezioso che si possa avere da Dio, ha aperto la liturgia della Parola di questa celebrazione che ci vede riuniti per fare memoria della nascita, giusto cinquecento anni fa, di uno dei figli più grandi di Firenze: San Filippo Neri.
Filippo Neri ci è dunque presentato come uomo sapiente, lui, il giovane fiorentino che, pellegrino a Roma, si radica nel tessuto popolare di quella città, per farsi annunciatore di Cristo, educatore di giovani e di adulti, prima come fedele laico e poi come sacerdote. Occorre veder bene di quale sapienza si tratti, alla luce della parola di Dio e della testimonianza di questo nostro santo. Essa non è il frutto di una ricerca tutta umana, fatta di saperi e di coscienza di sé. Ci appare, piuttosto, come un dono, da chiedere e da custodire, per il quale occorre essere pronti a mettere da parte ogni altro desiderio: i poteri di questo mondo – scettri e troni –, le ricchezze terrene – gemme, oro e argento –, il benessere personale – salute e bellezza. Non per un disprezzo dei beni, che sono pure creature di Dio, o delle gioie che essi comunicano, ma nella certezza che solo dalla sapienza stessa può giungere a noi ciò che costituisce il nostro vero bene, come ci ha ricordato il testo biblico: «insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile» (Sap 7,11). E tra le espressioni attribuite al nostro santo troviamo queste analoghe parole: «Quanto amore si pone nelle creature, tanto se ne toglie a Dio. […] All’acquisto dell’amore di Dio non c’è più vera e più breve strada che staccarsi dall’amore delle cose del mondo, ancor piccole e di poco momento, e dall’amore di se stesso, amando in noi più il volere e servizio di Dio, che la nostra soddisfazione e volere».
Questo orientamento limpido in Dio e nel suo volere, vale a dire nella sapienza, è ciò che qualifica una vita come santa, che irradia intorno a sé una testimonianza credibile di Vangelo. È anche quanto viene cercato da Filippo e dai suoi compagni nell’esperienza dell’Oratorio, che non fu tanto un’opera educativa o assistenziale, bensì essenzialmente un cenacolo di ricerca spirituale, attorno alla parola di Dio; una ricerca offerta a tutti, riproponendo l’esperienza della prima comunità cristiana, come esperienza di santità e di gioia nel contesto di una società che non viene rigettata ma a cui si guarda come luogo da evangelizzare. C’è chi ha scritto che san Filippo Neri ha introdotto nella Chiesa della Controriforma, «così avida di regole, di sottigliezze, di distinzioni, così normativa e istituzionale, così diffidente per le ispirazioni interiori, una ventata di fervore carismatico che ha scompaginato schemi prefissati e sciolto irrigidimenti, durezze, vischiosità. Lo Spirito Santo è invocato […] non solo come ispiratore dei ragionamenti sul libro nelle riunioni dell’Oratorio, ma come ispiratore interiore e maestro d’orazione. […] Si comprende in questa prospettiva che la Chiesa delle origini, vivificata dalla carità, libera dalle rigidezze istituzionali diventi il modello a cui ispirarsi» (Massimo Marcocchi, prefazione a S. Filippo Neri, Gli scritti e le massime, a cura di A. Cistellini, 1994). Non c’è bisogno di sottolineare l’attualità di questi orizzonti per la Chiesa chiamata oggi da Papa Francesco a uscire da sé verso le periferie dell’umanità.
In questa ricerca di libertà di spirito e di coraggioso slancio di testimonianza evangelica, diventa essenziale il discernimento del bene. Ne è richiamo il testo dell’apostolo Paolo, proposto dalla liturgia: aderire a Cristo significa far diventare oggetto dei nostri pensieri «quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode» (Fil 4,8). Per questo motivo l’esortazione: «Siate sempre lieti» (Fil 4,4), non è un appello alla superficialità o a un cedimento sentimentalistico, ma per la vicinanza del Signore, della sapienza di Dio alla propria umanità ferita e sofferente: «Il Signore è vicino» (Fil 4,5), esclama san Paolo.
È questa anche la letizia a cui richiamava con insistenza san Filippo Neri: «Figliuoli, state allegri, state allegri. Voglio che non facciate peccati, ma che siate allegri. […] L’allegrezza cristiana interiore è un dono di Dio, derivato dalla buona coscienza, mercé il disprezzo delle cose terrene, unito con la contemplazione delle celesti».
La radice di questa letizia spirituale sta nel radicamento in Cristo. Lo rammenta Gesù stesso nel testo del vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,4-5). Il radicamento cristologico è essenziale sia per spiegare la pienezza di senso che risplende nella vita di san Filippo Neri, sia lo spirito comunitario che anima la sua azione apostolica, sia il suo atteggiarsi verso il mondo e la convivenza umana, con quello spirito positivo di inclusione che trova espressione in queste parole dell’oratoriano John Henry Newman: «So benissimo che vi sono santi, la missione dei quali sta piuttosto nel separare l’uno dall’altro il mondo e la Verità; e ce ne sono altri, che ricevono la missione di unirli insieme. Quest’ultima era la missione di Filippo» (J.H. Newman, Missione di san Filippo, 1850). Così si comprende anche il ruolo che nell’esperienza dell’Oratorio veniva riservato alla cultura, all’arte e alla musica in particolare.
Questa “discretio”, questa misura, che permette di stare nel tempo senza esserne servi, in una fedeltà al Vangelo senza incertezze, si trova descritta in quanto scrive un altro oratoriano dell’Ottocento, il cardinale Alfonso Capecelatro: «Una signorilità ingentilita anche meglio dall’umiltà, una sveltezza sdegnosa di fretta rumorosa, una parola carezzevole senza mollezza, una festività temperata dall’idea del dolore cristiano, un profondo sentimento di arte elevantesi alle altezze del sovrasensibile, una cura continua delle anime sempre silenziosa, un amore devoto del culto sempre lontano da volgari apparenze, e poi una preghiera fatta di meditazione, assorgente nei misteri della fede, e una misericordia maternale pei poverelli, per gl’infermi, pei giovani, pei fanciulli».
Una sintesi efficace dell’ideale cristiano e sacerdotale “filippino”, che mettiamo a conclusione di questo ricordo del nostro santo, fiorentino e romano: romano certamente per l’azione apostolica svolta per più di sessant’anni nella città dei papi, ma fiorentino perché nato cristiano nel nostro “bel San Giovanni”, saranno cinquecento anni domani, festa di S. Maria Maddalena. Firenze che con fierezza ne ricorda i natali, con responsabilità ne raccolga la singolare e impegnativa eredità di santità.
Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze