Si svolge a Roma oggi e domani l’Incontro unitario delle due Federazioni Italiane (Italia Settentrionale e Centro-Meridionale) sul tema: “La figura del sacerdote oratoriano alla luce dell’anno sacerdotale”, introdotto da una relazione del P. Procuratore Generale.
Riportando il programma dell’Incontro, la lettera di convocazione afferma: “Considerata la straordinarietà dell’evento, che vede riunite tutte le case italiane in Convegno congiunto fra le due Federazioni sarà dato spazio per illustrare il cammino da esse percorso, e si auspica che possano emergere spunti per una omogenea formazione dei Novizi fra le Case italiane, e proposte per un maggiore dialogo ed una fraterna collaborazione fra tutte le Case”.
Riportiamo alcuni passi della relazione introduttiva del P. Procuratore Generale.
1. “La figura del sacerdote oratoriano nell’Anno dedicato ai sacerdoti” è il tema dell’Incontro.
Ora questo Anno è formalmente concluso, ma la conclusione di un evento evidentemente non è la chiusura delle tende sulla scena; è l’apertura di una nuova “stagione”. E Dio voglia che questa nuova stagione ci sia! Tutti sappiamo quanto sia necessario che essa abbia inizio, un nuovo inizio!
Non c’è bisogno di dire quante vicende poco liete sono accadute nel corso dell’Anno Sacerdotale: il Santo Padre stesso ha detto che il “nemico” ci ha messo lo zampino… e con quale forza, lo sappiamo…; ha detto che c’è bisogno di una grande purificazione nella Chiesa… e quanto questa sia necesaria non c’è bisogno di sottolinearlo…; ha detto e ripetuto, lungo tutto l’Anno, ciò che aveva posto come pietra basilare dell’Anno sacerdotale: “la fedeltà di Cristo è il fondamento della ns fedeltà”… e anche questo non ha bisogno di essere qui illustrato, tanto è evidente…
Riguardo alla “figura del sacerdote” e per noi del “sacerdote filippino”, mi limito a sottolineare, una sola caratteristica tra quelle che rifulgono nel sacerdote Filippo Neri; la caratteristica che quest’anno ho cercato di evidenziare là dove ho celebrato la festa di S. Filippo, oltre che a Roma:
la consapevolezza che Padre Filippo sempre ha avuto della sua INDEGNITA’:
– prima dell’Ordinazione («Per humiltà non ardiva farsi sacerdote – testimonia Germanico Fedeli – e repugnò tanto fino a che fu astretto per comandamento del suo padre spirituale…et questo l’ho sentito dire da esso beato Padre Filippo, et per questo s’ordinò sacerdote di molta età».
– lungo tutto il corso della vita, fino al momento della morte («Quando io lo comunicai – attesta il cardinale Federico Borromeo – egli dicea: ‘Io non ho fatto bene niuno, niuno, niuno…’. A quelle parole che io diceva nel comunicarlo: ‘Domine non sum dignus’, egli replicò ad alta voce: ‘Mai, mai non ne sono stato degno’; e tutto questo con vigor di spirito incredibile in un corpicciolo moribondo»).
Questa consapevolezza di “indegnità” è comune, credo, ad ogni prete, e sono certo che tutti noi, al momento della nostra ordinazione, quando abbiamo sentito rivolgere dal Vescovo la domanda rituale: “Sai che ne sia degno?”… e la risposta (un tempo rituale; ora, in molti casi sembra l’introduzione del Processo di beatificazione dell’ordinando…; in passato c’era almeno quell’espressione: “per quanto l’umana fragilità permette di conoscere…”: oggi, invece, pare che la consapevolezza di questa “fragilità” si sia un po’ offuscata…) … tutti noi – dicevo – al momento della nostra ordinazione, abbiamo avuto coscienza che il nostro “essere degni” era riferito, tutt’al più, alla serietà della nostra preparazione…, ma che “degni di essere stati scelti” non lo eravamo per nulla, essendo la chiamata un atto d’amore di Dio verso di noi, e l’ordinazione un dono immeritato!
Ma lungo i giorni e le svolte della nostra vita sacerdotale, rimane viva e operante questa coscienza della nostra “indegnità”? Cioè del fatto che al centro di tutto non ci siamo noi, ma Gesù Cristo; del fatto che non siamo noi, mai, i protagonisti, ma che il Protagonista è Lui; che nelle scelte, nelle decisioni, nell’impostazione dei problemi di ogni giorno, nella stessa scelta dei metodi, Lui, non noi, è il punto di riferimento?
Per Padre Filippo la consapevolezza della indegnità si tradusse in una impostazione di vita alla base della quale chiara, perennemente in atto, stava la convinzione che “chi vuol altro che non sia Cristo non sa quel che si voglia; chi fa e non per Cristo, non sa quel che si faccia”… Stava la convinzione che gli faceva affermare: “Dio sempre ha ricercato nei cuori degli uomini lo spirito d’humiltà, e un sentir basso di sé. Non vi è cosa che più dispiaccia a Dio che l’essere gonfiato della propria stima”. – “Figliuoli, siate humili, state bassi; siate humili, state bassi”. – “Soprattutto siate humilissimi” – “Humiliate voi stessi sempre, e abbassatevi negli occhi vostri e degli altri, affinché possiate diventar grandi agli occhi di Dio”.
La consapevolezza della ns. “indegnità” non intacca minimamente la convinzione della grandezza del sacerdozio che ci è stato donato: semmai la esalta! Questa consapevolezza è quella vera umiltà che stava così a cuore a Padre Filippo, da indurlo a metterla alla base di tutta la sua pedagogia… Santo della gioia, sì; santo della carità, sì (l’“unico vinculo caritatis” che spesso ricordiamo): è tutto vero, ma resta il fatto che Padre Filippo ha parlato assai poco della gioia e forse ancor meno della carità, mentre ha parlato soprattutto dell’umiltà ed ha educato con ogni mezzo (scherzoso, ma anche risoluto) all’umiltà…: come avvenne – per fare un solo esempio – nel primo incontro con il B. Giovenale Ancina, il quale racconta lui stesso a suo fratello Giovanni Matteo: “Parlai seco [con Padre Filippo] un pezzo nei giorni passati, introdotto da un suo discepolo più caro e più mortificato degli altri [è Cesare Baronio]. Insomma, mi vide e mi sentì volentieri, mi esortò sopra ogni altra cosa all’umiltà”.
Umiltà è accogliere lo sguardo di Dio su di sé; non è svilimento e disprezzo di sé, ma il corretto atteggiamento fondamentale dell’uomo nei confronti della realtà, di tutta la realtà; virtù positiva che esige necessariamente un’opera di purificazione interiore la quale immette in un vero cammino di liberazione e fa entrare nel cammino della libertà: la libertà dalle paure, dai fantasmi, dalle ansie, dall’egocentrismo, dall’abbattimento per gli insuccessi, da distruttivi sensi di colpa, dall’istinto di gettare su altri la colpa, dall’irrigidirsi negli errori; la libertà di amare in modo oblativo, di servire senza pretendere compensi, di ascoltare, di capire, di immedesimarsi nella realtà dell’altro senza possedere, di essere contento dei talenti che ha ricevuto senza invidie ed avvilenti confronti, di impegnarsi al massimo con serietà ma senza seriosità, con senso del dovere e con responsabilità, ma conservando un sano umorismo e rinunciando ad eccessive durezze. Svanisce, allora, poco a poco, la vanità, la ricerca spasmodica dell’ammirazione e dell’approvazione altrui, il servilismo, il bisogno di maschere e di paraventi, la compiacenza del parlare troppo di sé o del parlarne troppo poco; e crescono il rispetto, il giusto “amor proprio” che è dignità, l’affabilità che non indulge a chiacchiere vuote, la franchezza nel dire le cose, il coraggio nelle situazioni che lo richiedono, la gioia che sgorga dall’essere in pace con se stessi perché consapevoli di essere “vasi di creta” ma contenenti un tesoro.
2. Vorrei ora lasciare, per un pensiero conclusivo sul sacerdote, la parola a Papa Benedetto XVI.
Tutti conserviamo il ricordo di quanto il Santo Padre ha insegnato sul sacerdozio lungo il corso dell’Anno Sacerdotale, fino alle splendide risposte date a braccio nella veglia in Piazza S. Pietro, nella vigilia del S. Cuore, e poi nell’omelia della Messa conclusiva con i 15.000 preti concelebranti…
Ho scelto – come riflessione da proporvi – alcuni pensieri dell’omelia da Lui tenuta il 20 giugno per l’ordinazione di 14 nuovi preti per la diocesi di Roma. Anche questa omelia l’avete senz’altro letta o sentita, ma il riascoltarla credo ci faccia bene:
– Ci sentiamo tutti invitati ad entrare nel «mistero», nell’evento di grazia che si sta realizzando nei vostri cuori con l’Ordinazione presbiterale.
Nel Vangelo che abbiamo ascoltato Gesù chiede ai discepoli che cosa la gente pensi di lui e come lo giudichino essi stessi. Pietro risponde a nome dei Dodici: Tu sei il Cristo di Dio (cfr Lc 9,20).
Da dove nasce questo atto di fede? Se andiamo all’inizio del brano evangelico, costatiamo che la confessione di Pietro è legata ad un momento di preghiera: «Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui»: I discepoli, cioè, vengono coinvolti nell’essere e parlare assolutamente unico di Gesù con il Padre. Dall’«essere con Lui», dallo «stare con Lui» in preghiera, deriva una conoscenza che va al di là delle opinioni della gente per giungere all’identità profonda di Gesù, alla verità.
Qui ci viene fornita un’indicazione ben precisa per la vita e la missione del sacerdote: nella preghiera egli è chiamato a riscoprire il volto sempre nuovo del suo Signore e il contenuto più autentico della sua missione. Solamente chi ha un rapporto intimo con il Signore viene afferrato da Lui, può portarlo agli altri, può essere inviato. Si tratta di un «rimanere con Lui» che deve accompagnare sempre l’esercizio del ministero sacerdotale; deve esserne la parte centrale, anche e soprattutto nei momenti difficili, quando sembra che le «cose da fare» debbano avere la priorità. Ovunque siamo, qualunque cosa facciamo, dobbiamo sempre «rimanere con Lui».
– Un secondo elemento vorrei sottolineare del Vangelo di oggi. Subito dopo la confessione di Pietro, Gesù annuncia la sua passione e risurrezione e fa seguire a questo annuncio un insegnamento riguardante il cammino dei discepoli, che è un seguire Lui, il Crocifisso, seguirlo sulla strada della croce. Ed aggiunge poi – con un’espressione paradossale – che l’essere discepolo significa «perdere se stesso», ma per ritrovare pienamente se stesso (cfr Lc 9,22-24).
Cosa significa questo per ogni cristiano, ma soprattutto cosa significa per un sacerdote? La sequela, ma potremmo tranquillamente dire: il sacerdozio, non può mai rappresentare un modo per raggiungere la sicurezza nella vita o per conquistarsi una posizione sociale. Chi aspira al sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero. Chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo sarà sempre schiavo di se stesso e dell’opinione pubblica. Per essere considerato, dovrà adulare; dovrà dire quello che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni e, così, si priverà del rapporto vitale con la verità, riducendosi a condannare domani quel che avrà lodato oggi. Un uomo che imposti così la sua vita, un sacerdote che veda in questi termini il proprio ministero, non ama veramente Dio e gli altri, ma solo se stesso e, paradossalmente, finisce per perdere se stesso. Il sacerdozio – ricordiamolo sempre – si fonda sul coraggio di dire sì ad un’altra volontà, nella consapevolezza, da far crescere ogni giorno, che proprio conformandoci alla volontà di Dio, «immersi» in questa volontà, non solo non sarà cancellata la nostra originalità, ma, al contrario, entreremo sempre di più nella verità del nostro essere e del nostro ministero.
– Vorrei proporre alla vostra riflessione un terzo pensiero, strettamente legato a quello appena esposto: l’invito di Gesù a «perdere se stesso», a prendere la croce, richiama il mistero che stiamo celebrando: l’Eucaristia.
A voi è affidato il sacrificio redentore di Cristo, a voi è affidato il suo corpo dato e il suo sangue versato. Certo, Gesù offre il suo sacrificio, la sua donazione d’amore umile e totale alla Chiesa sua Sposa, sulla Croce. E’ su quel legno che il chicco di frumento lasciato cadere dal Padre sul campo del mondo muore per diventare frutto maturo, datore di vita. Ma, nel disegno di Dio, questa donazione di Cristo viene resa presente nell’Eucaristia grazie a quella potestas sacra che il sacramento dell’Ordine conferisce a voi presbiteri.
Come allora non pregare il Signore, perché vi dia una coscienza sempre vigile ed entusiasta di questo dono, che è posto al centro del vostro essere preti! Perché vi dia la grazia di saper sperimentare in profondità tutta la bellezza e la forza di questo vostro servizio presbiterale e, nello stesso tempo, la grazia di poter vivere questo ministero con coerenza e generosità, ogni giorno. La grazia del presbiterato, che tra poco vi verrà donata, vi collegherà intimamente, anzi strutturalmente, all’Eucaristia. Per questo, vi collegherà nel profondo del vostro cuore ai sentimenti di Gesù che ama sino alla fine, sino al dono totale di sé, al suo essere pane moltiplicato per il santo convito dell’unità e della comunione. È questa l’effusione pentecostale dello Spirito Santo, destinata a infiammare il vostro animo con l’amore stesso del Signore Gesù. È un’effusione che, mentre dice l’assoluta gratuità del dono, scolpisce dentro il vostro essere una legge indelebile – la legge nuova, una legge che vi spinge ad inserire e a far rifiorire nel tessuto concreto degli atteggiamenti e dei gesti della vostra vita d’ogni giorno l’amore stesso di donazione di Cristo crocifisso.
(L’Osservatore Romano, 21-22 giugno 2010)