E il bambino chiese: “Chi è più grande?”

Verso la canonizzazione di John Henry Newman

L’Osservatore Romano intervista p. Mauro De Gioia
Postulatore generale della Confederazione dell’Oratorio di San Filippo Neri e preposito dell’Oratorio di Genova

Fu in qualche modo involontario profeta il bambino che una volta chiese a John Henry Newman: «Chi è più grande: un cardinale o un santo?». La sua risposta — «Vedi, piccolo mio, un cardinale appartiene alla terra, è terrestre; un santo appartiene al cielo, è celeste» — è probabilmente uno dei primi insegnamenti del porporato inglese che sarà canonizzato il prossimo 13 ottobre. Ne è certo padre Mauro De Gioia — postulatore generale della Confederazione dell’Oratorio di San Filippo Neri e preposito dell’Oratorio di Genova — che, subito dopo l’annuncio di Papa Francesco nel concistoro di lunedì 1° luglio, non ha dubbi nell’affermare: «Newman è un grande dono per la Chiesa universale». E si sofferma a scandagliarne l’eredità spirituale proprio a partire da quel semplice dialogo con un fanciullo: «Da una parte c’è l’attenzione del cardinale per la santità quotidiana, quella semplice, dei piccoli gesti, ma più radicalmente c’è l’idea che la realtà vera è quella del cielo».

È l’obiettivo che egli volle come epitaffio sulla sua tomba: «Dalle ombre e dalle apparenze alla realtà»?

Esattamente. È il vivere la quotidianità nella serietà dell’impegno delle piccole cose, ma consapevoli che la realtà ultima è quella che ci aspetta. Questo mi sembra anche rivoluzionario rispetto alla sensibilità contemporanea, dove tante volte le speranze sono di breve respiro e la dimensione escatologica non trova cittadinanza. Usando un’espressione newmaniana potremmo dire che la “luce gentile” che troviamo nella quotidianità è un anticipo di eternità.

A oltre cinquant’anni dal Vaticano II la Chiesa porta sugli altari il cardinale che è stato definito uno dei “padri assenti” del Concilio. Quanto c’è stato di lui nell’assise conciliare?

Assente fisicamente, ma molto, molto presente. Fondamentalmente evidenzierei due temi e un atteggiamento. Innanzitutto il tema ecclesiologico della valorizzazione del sensus fidei dei laici. Nasce appunto dalla riflessione di Newman «sulla consultazione dei fedeli in materia di fede» e che è ripreso nel numero 12 di Lumen gentium. Parlerei proprio di una canonizzazione della sua teologia. C’è poi il tema della coscienza che ritorna in più punti del concilio e che troviamo in particolare nel numero 16 di Gaudium et spes. Peraltro, Newman è citato esplicitamente sul tema della coscienza anche nel Catechismo della Chiesa cattolica subito dopo il Vaticano II.

Poco fa alludeva anche a un “atteggiamento”…

Mi riferivo al modo in cui Newman si poneva nell’ambito dei rapporti ecumenici: mai acritico e sempre profondamente positivo nei confronti del mondo non cattolico. Può sembrare paradossale per una persona che al cattolicesimo arriva dopo un percorso che lo ha portato a interrompere una strada precedente. Però lui ha sempre riconosciuto quanto nel mondo anglicano era già buono. Atteggiamento che è stato profondamente ispiratore di quel dialogo ecumenico sollecitato dal Vaticano II. Mai un senso di rottura, ma sempre un confronto fecondo. Tanto più quando l’esigenza della conversione si faceva strada in lui come fedeltà alla verità. È stato un processo vissuto mai in chiave polemica. Ciò gli ha creato anche delle incomprensioni, perché Newman ha passato buona parte della vita a essere considerato un traditore tra gli anglicani e un ambiguo tra alcuni cattolici. In realtà si è mostrato più evangelico nella sostanza e più fecondo nella prassi pastorale.

Quindi la canonizzazione può significare un ulteriore ponte fra cattolici e anglicani?

È proprio la figura stessa di Newman a esserlo. E si è evidenziato già al termine della sua vita: quando il cardinale morì era ormai un eroe nazionale. In tutto il mondo anglofono era considerato semplicemente una gloria. E già questo è un elemento di unità e di dialogo. Non a caso la beatificazione prima e la prossima canonizzazione non sono avvertite come una forma di trionfalismo, ma come una gioia per tutti. È quanto ho toccato con mano al momento della beatificazione in Inghilterra: c’era un clima di gioia condivisa. E penso che ciò si rinnoverà in maniera ancora più evidente in occasione della canonizzazione.

Si è parlato spesso dell’attualità di Newman. Quale insegnamento ha lasciato alla Chiesa e all’uomo di oggi?

La cosa principale credo sia l’uso sano della ragione. Newman è l’uomo in cui fede e ragione si coniugano, anche se non sempre senza difficoltà. Egli ci dà la lezione di come il cristiano sia un uomo completo, che usa testa e cuore. Da qui scaturiscono tutte le conseguenze sia nell’ambito della vita spirituale, sia in quello della ricerca filosofica e, non ultimo, in quello dell’esistenziale. Paradossalmente Newman, che è stato uno degli intellettuali più raffinati del cattolicesimo ottocentesco, era un uomo dalla devozione semplice, molto calato nel suo tempo. Ha scritto novene, preghierine, predicava abitualmente agli operai di Birmingham. Mostrava come tutte le forme dell’umanità possano e debbano essere usate nel rapporto col Signore, perché il Signore incarnandosi le ha assunte e le ha redente.

Rapporto tra fede e ragione che Newwan approfondisce nella sua «Grammatica dell’assenso»…

L’aspetto della dimensione razionale ha accompagnato da sempre il percorso della teologia cattolica. Il rischio era di elaborare progetti intellettuali fini a se stessi e accessibili solo a un’élite. Newman, con un linguaggio anche tecnico, con un’elaborazione teorica da specialisti, nella Grammatica dell’assenso attesta la razionalità dell’atto di fede dell’uomo comune. Questo è veramente rivoluzionario, perché aiuta a far capire come ogni atto di fede, essendo un atto umano, coinvolge la razionalità e questa razionalità è autentica anche al di fuori di un esercizio formale della ricerca intellettuale. C’è un passo bellissimo di san Tommaso in cui si legge che la vecchietta cristiana, nel suo atto di fede, ha una conoscenza di Dio maggiore del più grande filosofo dell’antichità. E Newman dà proprio la giustificazione della razionalità di questo atto di fede.

Il primato della coscienza è uno dei capisaldi della riflessione newmaniana. Un tema che, nell’era del “pensiero liquido” e del relativismo esasperato, può prestarsi a fraintendimenti. Cosa intendeva il cardinale riguardo al rapporto tra coscienza e verità?

Partirei dalla celebre definizione che «la coscienza è il primo vicario di Cristo nell’uomo». Cristo è la verità. E la coscienza esiste come ascolto della verità che il soggetto fa nella libertà e nella propria responsabilità. Quindi non esiste una coscienza senza relazione alla verità. Pensare a una coscienza che crea autonomamente il bene e il male è proprio l’opposto del pensiero newmaniano. Il soggetto valuta la realtà che incontra alla luce della verità che ha conosciuto. Qui è implicito il dovere della formazione e dell’ascolto. Questa idea è così forte che Newman elabora una prova dell’esistenza di Dio, un cammino verso Dio a partire dai motivi che rendono autorevole la voce della coscienza all’uomo stesso.

Inevitabile una domanda “oratoriana”: cosa legava Newman a Filippo Neri?

Apparentemente, si potrebbe dire, ben poco. Caratterialmente sono due tipi molto diversi. Filippo Neri non era un intellettuale anche se era una persona colta, un italiano del Cinquecento, famoso anche per l’aspetto giocoso della sua personalità. Newman è invece l’esempio di un inglese dell’Ottocento, anche formalmente più compassato. C’è però una profondissima sintonia che il cardinale stesso confessa dicendosi affascinato, innamorato di questo anziano prete italiano. Quale è il motivo di tale sintonia? L’amore profondissimo per l’umiltà. E conseguentemente per uno stile di vita che nell’Oratorio Newman ha trovato molto congeniale. Inoltre ricorderei che il capolavoro di Newman, l’Apologia pro vita sua, non solo contiene un esplicito ringraziamento ai padri della congregazione, definita come sua famiglia, sua casa, ma — in maniera meno evidente a chi non conosce Filippo Neri — comincia proprio con una citazione del santo fiorentino. Newman usa infatti l’espressione Secretum meum mihi (“Il mio segreto è per me”), esattamente la frase che Filippo Neri ripeteva quando gli chiedevano informazioni circa le sue estasi e i fenomeni mistici. È come se Newman dicesse: «devo parlare di me stesso, non lo farei, parlo di me solo per una carità più grande a favore della Chiesa e del sacerdozio cattolico».

di Maurizio Fontana
L’Osservatore Romano

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