L’Osservatore Romano e il Beato Vaz

L’Osservatore Romano ha pubblicato lunedì 11 gennaio, nell’imminenza della canonizzazione del Beato José Vaz in Sri Lanka, un articolo di Mons. Edoardo Aldo Cerrato CO.

L’oratoriano Joseph Vaz sarà canonizzato a Colombo

Clandestino con la candela accesa
di EDOARDO ALDO CERRATO*

Non solo per l’India e lo Sri Lanka è motivo di gioia la canonizzazione del beato José Vaz che Papa Francesco celebrerà il prossimo 14 gennaio a Colombo; lo è anche per l’Oratorio di san Filippo Neri che vede iscritto nell’albo dei santi un suo sacerdote di cui san Giovanni Paolo II disse, beatificandolo vent’anni fa: “In considerazione di tutto ciò che P. Vaz fu e fece, di come lo fece e delle circostanze nelle quali riuscì a svolgere la grande opera di salvare una Chiesa in pericolo, è giusto salutarlo come il più grande missionario cristiano che l’Asia abbai mai avuto”. 

Ebbero coscienza di questa straordinaria grandezza già i suoi confratelli che scrissero, il 17 gennaio 1711, mentre padre Vaz era esposto alla venerazione dei fedeli nella chiesa cattolica di Kandy: “Il 16 gennaio si è spento il venerabile P. Vaz, Vicario generale di questa missione e padre dei missionari. Il dolore e la desolazione causati dalla sua perdita sono grandissimi e non possono sufficientemente essere descritti perché egli fu veramente un sacerdote santo”.

Da vent’anni padre José si era introdotto clandestinamente a Ceylon, oppressa dalla dura persecuzione scatenata contro i cattolici dagli Olandesi che avevano conquistato l’isola. Quando vi giunse, in abito da schiavo e nella condizione di mendicante, tutti i sacerdoti erano stati uccisi o espulsi, le chiese profanate o distrutte, i fedeli dispersi, terrorizzati dalla minaccia di morte; quando chiuse i suoi giorni, era fiorente una Chiesa di 70.000 ferventi cattolici, con quindici chiese, quattrocento cappelle, dieci sacerdoti e numerosi catechisti laici che curavano la formazione del popolo servendosi dei manuali che padre Vaz aveva composto in lingua locale. Questo piccolo uomo, con la santità della sua vita ed il suo zelo apostolico, aveva posto radici così profonde che non sarebbero state estirpate dalle successive tempeste.

Era nato in India, nel villaggio materno di Benaulim, territorio di Goa, il 21 aprile 1651, in una famiglia di Bramini Konkany divenuta cristiana dal XVI secolo. Compiuti gli studi preparatori, proseguì in Goa la formazione umanistica nell’Università dei Gesuiti e quella filosofica e teologica  presso il Collegio domenicano di S. Tommaso d’Aquino. Ordinato sacerdote nel 1676, iniziò nel suo villaggio natio ad esercitare il ministero sacerdotale, ma fu presto invitato a predicare nella cattedrale e a dedicarsi al servizio delle Confessioni e della direzione spirituale.

L’ardore missionario che lo animava gli fece scoprire fin da allora la triste realtà di Ceylon ed avrebbe voluto recarvisi; le autorità della diocesi lo inviarono invece nel Kanara, dove la Santa Sede aveva eretto un Vicariato Apostolico, ma dove si era scatenata da tempo una triste contesa di competenze e giurisdizioni che turbava la vita dei fedeli. Fu l’umiltà e la straordinaria dedizione del Vaz a riconciliare i Pastori. Rientrato a Goa nel 1684, nella solitudine e nell’ombra in cui l’ingratitudine lo aveva lasciato, padre José sentì forte il desiderio di entrare in qualche Ordine religioso; trovò sul Monte Boa Vista tre sacerdoti indiani che avevano iniziato la vita comune presso la chiesa di S. Croce dei Miracoli e chiese di farne parte. Eletto superiore, fu il vero fondatore della comunità alla quale diede una nitida fisionomia spirituale e la forma giuridica della Congregazione di San Filippo Neri di cui era giunta notizia dal Portogallo, dove l’Oratorio fondato dal ven. Bartolomeo de Quental era fiorente e fervidamente missionario.

Quando Clemente XI, il 26 novembre 1706, confermava la fondazione e ne elogiava l’operato, padre Vaz era già partito per Ceylon. Sul finire del 1686, infatti, mentre la comunità, ricca di vocazioni e di buoni frutti, già poteva reggersi senza di lui, sentì giunto il momento di rispondere alla mai sopita vocazione a favore di quei cattolici abbandonati. In compagnia di João, un ragazzo che lo avrebbe seguito fino alla fine con amore di figlio, dopo mesi di faticosi tentativi riuscì a sbarcare sulla costa di Ceylon.

Pur nel timore di essere scoperto, iniziò la ricerca dei cattolici, la maggior parte dei quali, sotto la sferza della persecuzione, aveva assunto esteriormente gli usi calvinisti e non osava esporsi. Padre Vaz si pose al collo la corona del Rosario ed incominciò a bussare di porta in porta, chiedendo l’elemosina. Tra l’indifferenza dei buddisti e degli induisti, notò qualcuno che guardava con interesse quel segno della pietà cattolica: incominciò da una famiglia, e quando fu sicuro della sua fedeltà rivelò la propria identità. Fu quello l’inizio della rievangelizzazione dell’Isola, proseguita nel villaggio di Jaffna, per due anni, nell’esercizio segreto del ministero, con la celebrazione notturna della Messa e l’ascolto di quelli che a lui si rivolgevano per la Confessione ed il colloquio spirituale.

Il rifiorire della comunità cattolica attirò l’attenzione delle autorità olandesi, ma il padre Vaz, mentre l’ira del governatore si scatenava e non pochi furono i martiri, fu messo in salvo dagli stessi fedeli che lo indussero a fuggire nell’interno dell’Isola, nel piccolo stato di Kandy ancora formalmente autonomo. Il Re lo fece imprigionare, ma, informato dai sorveglianti sulla santità di vita del prigioniero, gli divenne amico e padre Vaz ebbe la possibilità di predicare e di diffondere la fede in tutto il regno, percorrendone a piedi il territorio e dovunque ristabilendo la presenza della Chiesa.

L’epidemia di vaiolo scoppiata nel 1697 avrebbe completamente distrutto la popolazione se – per testimonianza dello stesso re – la carità e l’intelligenza di padre Vaz non avesse provveduto a curare i malati e a dettare norme igieniche che di fatto contennero il contagio.

Nella notte del 15 gennaio 1711, ricevendo il Viatico, alla comunità oratoriana che gli chiedeva un ultimo ricordo il padre disse: “Ricordate che non si può facilmente compiere al momento della morte quello che si è trascurato di fare per tutta la vita”, e tenendo in mano una candela accesa, con il nome di Gesù sulle labbra chiuse il suo faticoso pellegrinaggio terreno.

Vescovo di Ivrea